Palestina. Genocidio senza tregua

Le notizie si accavallano riguardo la tregua e mentre i poveri resti degli ostaggi deceduti vengono via via restituiti ai loro cari, tra un bombardamento e l’altro la fredda e cinica contabilità mass mediatica registra altre centinaia di morti tra i gazawi, in buona parte bambini e bambine: solo semplici numeri senza identità, senza immagine, disumanizzati come sempre.

Mentre scrivo arriva la notizia della proposta USA di un corridoio di sicurezza per il trasferimento dei militanti di Hamas dalle zone controllate dall’esercito israeliano e quelle temporaneamente abbandonate dall’IDF, insieme a quella di un ulteriore impegno dell’amministrazione Trump a costituire un nuovo corpo di polizia palestinese per il controllo della striscia – addestrato e controllato da USA, Egitto e Giordania – affiancato da una forza militare formata da soldati provenienti da paesi arabi e musulmani come Indonesia, Azerbaijan, Egitto e Turchia, sotto l’egida di un ‘Consiglio di pace’ guidato da Trump e i suoi. Notizie che da una parte stanno a significare il riconoscimento statunitense – al di là delle dichiarazioni bellicose – dell’esistenza di Hamas come soggetto politico – e non più solo terroristico – e dall’altra come gli stessi USA vogliano forzare la situazione per fare digerire al governo di Tel Aviv il ruolo della Turchia nell’area, una presenza sempre più invadente in una zona ricca di risorse energetiche, ma anche punto di snodo delle interconnessioni digitali tra i continenti. Non a caso riemerge la questione della divisione di Cipro e l’allerta turca in difesa della sua enclave.

Contemporaneamente le Nazioni Unite comunicano che 24mila tonnellate di aiuti sono entrate a Gaza dall’inizio del cessate il fuoco, ma, sebbene i volumi degli aiuti siano aumentati considerevolmente rispetto a prima, le ONG presenti continuano a denunciare la loro insufficienza, la carenza di finanziamenti e le difficoltà di rapporto con le autorità israeliane. Solo due su sei sono i valichi aperti; inoltre la rete idrica è praticamente distrutta e l’acqua potabile arriva solo grazie alle cisterne che soddisfano il 20-30% del fabbisogno. Il 90% della popolazione ha perso ogni fonte di reddito e dipende esclusivamente dagli aiuti umanitari. Con l’arrivo dell’inverno, diventa sempre più urgente trovare soluzioni ‘abitative’ – si calcola in almeno 300mila le tende necessarie per il ricovero di chi ha perduto tutto – mentre le strutture sanitarie sono, tranne pochissime eccezioni, fuori uso.

In Israele intanto i familiari degli ostaggi in attesa dei corpi ancora sotto le macerie invitano il governo a riprendere l’offensiva fino a che non vengano restituiti tutti, mentre una grande manifestazione di 200mila giovani ultraortodossi a Gerusalemme protesta energicamente contro la leva obbligatoria dalla quale sono stati finora esentati per motivi religiosi, pur sostenendo nelle sue ali più estreme il disegno – Bibbia alla mano – della grande Israele, dal Nilo all’Eufrate, Damasco e Baghdad comprese, passando per la distruzione della moschea di al-Aqsa – luogo sacro per l’Islam – sulle cui rovine erigere il terzo tempio di Salomone.

In questo contesto la tregua mostra tutta la sua fragilità, con le durissime rappresaglie israeliane, la liquidità dei confini e delle zone di occupazione, le resistenze di Hamas nei confronti del progettato disarmo, soprattutto dopo essere stati investiti dagli statunitensi del ruolo di poliziotti. Fragile ma tiene. Sullo sfondo ci sono gli ‘accordi di Abramo’, voluti da Trump durante la sua prima presidenza, insieme al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, per proseguire e intensificare i rapporti d’affari, suoi e del genero Jared Kushner, con i soci arabi degli Emirati, dei sauditi, e con la collaborazione di quel Tony Blair, consulente della British Petroleum, passato alla storia per le sue falsità giustificative dell’attacco occidentale all’Iraq di Saddam Hussein. Accordi di Abramo, pietre fondamentali per quella tanto agognata ‘via del cotone’ che dall’India arriverebbe all’Europa, passando per i porti israeliani di Haifa e di Ashdod, alternativa alla cinese ‘via della seta’ a suggello del crescente antagonismo tra USA e Cina di cui l’incontro recente tra Trump e Xi ha evidenziato tutta la sua ricaduta per il commercio mondiale e per la rispettiva, e non definitiva, spartizione delle zone d’influenza.

Ci voleva sicuramente il pragmatismo affaristico di Trump per arrivare alla tregua e ai 20 punti del piano di ‘pace’, dopo aver visto – con l’attacco israeliano al Qatar – messo in discussione il suo ruolo nell’area e aver costretto Netanyahu alle scuse con l’emiro. Anche il suo diktat nei confronti della decisione della Knesset di annettersi buona parte della Cisgiordania, come pure il rientro della proposta di espulsione dei palestinesi dalla striscia e il proferire il nome di Marwan Barghouti, stanno a significare che la partita è troppo grande per stare dietro pedissequamente ai sogni di Bibi e dei suoi scherani. Ma non c’è solo questo.

La crescente insofferenza delle comunità ebraiche nel mondo (negli USA abitano tanti ebrei quanti ne vivono in Israele) nei confronti della politica genocida del governo di Tel Aviv – è di questi giorni la lettera aperta di importanti personalità ebraiche di tutto il mondo che chiedono alle Nazioni Unite e ai leader mondiali di imporre sanzioni a Israele per quelle che descrivono come azioni che equivalgono a un genocidio a Gaza (https://jewsdemandaction.org/italiano) (https://www.theguardian.com/world/2025/oct/22/jewish-notables-open-letter-un-sanction-israel) – le manifestazioni che si susseguono senza sosta, in ogni parte del mondo, come pure gli ultimi sondaggi tra i cittadini statunitensi che per la prima volta vedono un risultato sfavorevole a Israele, devono aver avuto qualche effetto sulle decisioni prese. Quanto siano definitive e quanto siano efficaci è, ovviamente, tutto da vedere. Se per tanti anni l’esistenza – e anche la creazione – del nemico (vedi l’ambiguo rapporto con Hamas in funzione anti ANP) hanno fornito a Netanyahu l’arma per l’unità del paese, in un momento di grave crisi interna, e il pretesto per vanificare la soluzione dei due Stati, con l’obiettivo di incorporare definitivamente la Cisgiordania, oggi come oggi – dopo l’accordo trumpiano con gli Houthi nello Yemen e le aperture USA nei confronti dell’Iran dopo i bombardamenti del giugno di quest’anno – Bibi deve trovare una via d’uscita che gli permetta di mantenere il potere in una situazione sociale e politica assai complicata. Rimandata l’annessione formale della Cisgiordania, prosegue quella informale, ma effettiva, con i coloni, sostenuti dal governo e spalleggiati dall’esercito, impegnati nella cacciata dei palestinesi dalle loro terre con l’incendio delle abitazioni, i pestaggi e gli assassinii, il furto di bestiame e lo sradicamento degli ulivi, principali fonti di sostentamento: un metodo utilizzato dai colonizzatori di ogni latitudine e di ogni tempo (come dimenticare lo sterminio dei bisonti nella ‘conquista’ del West). Ma per quanto tempo Israele potrà continuare la sua politica guerresca e per quanto tempo potrà sostenere il peso economico di tale politica? Al di là della facciata di paese monolite, ‘la Super Sparta’, Israele è attraversato da grandi contraddizioni interne acuite da un quadro internazionale che non gli è favorevole: gli USA sono anch’essi in crisi e i tentativi di risoluzione di Trump, per quanto spettacolari, devono fare i conti con la guerra ‘interna’ che ha scatenato contro le opposizioni, gli immigrati, ecc.. Lo scenario internazionale gli serve per i suoi affari, non per il paese che presiede.

La crescita demografica degli ultraortodossi (haredim), con il loro portato di privilegi, aumenterà il conflitto con la parte laica del paese, così come la massiccia immigrazione russa sta spostando il baricentro del paese a scapito dei mizrachim, gli ebrei provenienti dai paesi arabi. Inoltre ci sono segnali crescenti di opposizione all’interno dello stesso establishment: è recentissima la notizia della denuncia degli inumani trattamenti e delle torture ai quali sono sottoposti i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, con conseguente dimissioni della procuratrice generale delle forze armate. E questo mentre continua imperterrita la mobilitazione dei refusenik (i renitenti e gli obiettori alla leva), delle organizzazioni ebraiche di difesa dei diritti dei palestinesi come B’Tselem e degli oppositori alle occupazioni e alla guerra, da sempre nel mirino della repressione governativa.

E poi c’è la resistenza dei palestinesi, soprattutto quella della popolazione che, nonostante tutto, resiste in Cisgiordania agli attacchi dei coloni, all’esproprio delle terre, alla distruzione dei villaggi, alla pulizia etnica sostenuta in primis da Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze, nella sostanziale passività di quell’Autorità Nazionale Palestinese i cui servizi segreti collaborano con quelli israeliani nel controllo della popolazione. E c’è quella di Gaza che, nonostante le condizioni terribili in cui è costretta a sopravvivere, vittima di decisioni sulle quali non ha alcuna possibilità di scelta, rifugge da ogni proposta di esilio, di allontanamento da una terra martoriata con più dell’80% degli edifici distrutti o danneggiati.

Ilan Pappé, lo storico israeliano, in un sua recentissimo libro ‘La fine di Israele’, prevede il collasso del paese in tempi brevi, a causa del conflitto crescente tra le sue anime, quella che affonda le sue radici nel sionismo originario e quella dell’ultra sionismo a carattere religioso formatosi alla scuola del rabbino statunitense Meir Kahane, fautore della deportazione di tutti i palestinesi e di tutti gli arabi dai territori biblici della Grande Israele. Ma qualunque sia lo sviluppo della situazione in quella terra disastrata, sicuramente dobbiamo aspettarci nuove sofferenze e nuovi bagni di sangue. La mobilitazione internazionale e internazionalista riuscirà a rovesciare in profondità lo stato di cose presenti? Riuscirà a porre sul piatto la questione di una diversa gestione dei territori, libera dai confini, da identitarismi escludenti, finalmente cosciente del valore distruttivo del nazionalismo e di quello costruttivo del federalismo autogestionario?

Massimo Varengo

immagine di Militanza Grafica

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